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18 luglio 2020

dunk!festival 2015

[È con atroce dispiacere che apprendo, in ritardissimo per altro, della scomparsa di "Storie", rivista letteraria bilingue (italiano/inglese) internazionale di Roma con la quale avevo collaborato, scrivendo alcuni articoli. Fortunatamente qualcuno sono riuscito a salvarlo, e ancora più fortunatamente questo: il resoracconto del dunk!festival del 2015 (c*zzo che esperienza folle!), nel quale avevo recensito qualcosa come 34 gruppi post-rock, venendo poi anche citato da alcuni di questi nelle loro varie pagine facebook.


Ed è con non poca umiltà che ammetto di aver goduto come un riccio nell'aver scritto per questa rivista ed aver visto i miei articoli pubblicati, a nome mio, perché qui ci scriveva gente come Niccolò Ammaniti, Cristiano Godano dei Marlene Kuntz, Robert Coover, Ariel Dorfman, Björn Larsson e Thurston Moore dei Sonic Youth, così, per citarne alcuni. Che onore, c*azzo!


Pertanto, nel caso vi interessi o se per curiosità vogliate darci un'occhiata, lo lascio qua, il mio articolo, sul mio blog, così come l'avevo inviato 5 anni fa, perché ahimè la versione editata è finita dispersa... 😢


🤟🏼🤟🏼]



Giornata zero – Necessaria introduzione

 

 Sono mesi che si aspettava questo momento: il dunk!festival. Evento della durata di 3 giorni (14,15 e 16 maggio) che si tiene da 11 anni in Belgio e che ospita alcune tra le migliori post-rock band provenienti da tutto il mondo - in passato, fra le altre: God Is An Astronaut, And so i watch you from afar, EF, Ufomammut, Sleepmakeswaves, Balmorhea e pg.lost.

 Insieme al buon Cin, ormai fidato compagno di numerose trasferte, verso mezzogiorno di un mercoledì già troppo afoso per essere solamente il 13 di maggio, si arriva all'aeroporto di Caselle, inebriati da tanto entusiasmo da fare invidia a Pippi Calzelunghe. È un attimo che ci si ritrova seduti sull'aereo. Come d’abitudine durante il volo, la conversazione, per una buona ora, si riduce solamente a un ignorante scambio di «Dunk!, Cazzo!»«Dunk!, Cazzo!», e nient’altro.

 Si atterra all'aeroporto di Charleroi senza nemmeno sapere quale mezzo prendere per arrivare fino a Brussels. Bisogna ammettere che non si è mai stati bravi ad organizzare alcunché. Tra le varie opzioni si sceglie di prendere due biglietti per la navetta che porta a Brussels-midi, la stazione, e da lì il treno per Zottegem, cittadina che dista un’oretta dalla capitale e dove si trova il festival, non prima di aver confuso un signore in giacca e cravatta, piuttosto in carne e ubriaco con un controllore. In treno si riesce a contattare via mail l’organizzazione del dunk!, giusto per capire se si possa già piazzare la tenda e a che ora chiuda il campeggio - dopotutto si è arrivati un giorno prima dell’inizio del festival. Appena il cellulare decide di prendere nuovamente campo, si riceve la risposta: «You're welcome any time. Just be sure to set your tent and car in the right area. See you soon!»

 Con una risposta simile, si fa fatica a trattenere le lacrime per lo stupore, in primo luogo perché si è ricevuta una risposta, tempestiva per di più; in secondo luogo perché l’essere italiani e il sentirsi benvenuti in un paese straniero non è affatto scontato di questi tempi.

 Si giunge a Zottegem per le 17:00, tuttavia la meta dista un’altra mezz'ora dalla stazione, una mezz'ora da fare a piedi, con trolley e valigia contenente tenda, materassino e quant'altro. Si decide di rilassarsi un poco in un pub belga: ce lo si è meritato in fin dei conti. Una, due, tre birre. Si fa fatica a trattenersi da berne altre, eppure il sole sta tramontando. Ed è sotto l’imbrunire che ci si mette in marcia attraverso la campagna belga: villette stupende e pascoli verdeggianti. La strada è più lunga del previsto, l’ingresso che si pensava fosse quello giusto in realtà è quello per gli artisti, quello per gli spettatori invece dista ancora uno o due chilometri. Nessun problema comunque, con qualche imprecazione si arriva a destinazione.

 La prima cosa che si riesce a notare, mentre il buio sta prendendo sopravvento sul crepuscolo, è un tendone da circo, enorme, a strisce blu e gialle – evidentemente lì dentro si svolgeranno i concerti, si pensa – e un boschetto al cui interno c’è un percorso illuminato da qualche lucetta; la seconda cosa che si nota è che stanno ancora ultimando i lavori. Un’abitudine, a quanto pare, non solo italiana. Stremati, si riesce a montare la tenda in un vasto campo d’erba deserto, se non per altre tre tende, distanti anni luce l’una dall'altra. È d’obbligo sottolineare a questo punto che il campeggio per questo e per i prossimi 3 giorni è gratuito.

 È nemmeno mezzanotte che si viene assaliti da un freddo atroce – il massimo che ci si è portati dietro per coprirsi è una felpa con cappuccio, mentre i sacchi a pelo si sono lasciati in Italia, troppo pesanti per essere imbarcati. Chi poteva prevedere che a maggio le temperature potessero scendere quasi sotto lo zero in un paese situato tra il nord della Francia e quello della Germania? I soliti imbecilli. Non c’è niente da fare, se non rassegnarsi all'inevitabile.

 

Prima giornata – Smilodonti e dragoni

 

Ci si sveglia intorno alle dieci del mattino, ancora più stanchi rispetto al giorno prima. Poco importa, oggi inizia il dunk!fest! Il campo intorno incomincia a macchiarsi di tende e si decide per il perlustrare l’area circostante. Con la luce del sole è tutta un’altra cosa. Non c’è solo il tendone, ma anche un discreto complesso di edifici sul retro, oltre al succitato boschetto. Gli stages sono due: il Mainstage e lo Stargazer stage, quest’ultimo un tendone bianco un po’ più piccolo e più sobrio rispetto al primo. Fra i due è posto un edificio al cui interno sono situati la cucina, la mensa, un tavolino per caricare i cellulari e una stanzetta nella quale ci sono le bancarelle dove comprare album e magliette dei diversi gruppi. E il wi-fi? Certo, c’è anche quello, gratuito.

 Dato che manca qualche ora all'inizio dei concerti, si decide di andare a piedi a Zottegem alla ricerca di una coperta più pesante per la notte successiva. Ovviamente si sbaglia strada e, cocciuti come somari lobotomizzati, si allunga di un’altra buona mezz'ora sotto a un cielo che non promette nulla di buono. In città si viene a sapere che oggi è festa nazionale, quale sia però non è dato saperlo. Ciò significa soltanto una cosa: si è camminato per niente, poiché tutti i negozi sono chiusi. Con le pive nel sacco, insieme a qualche birra belga e un whisky recuperati a un tabaccaio non osservante le festività, ci si prepara alla scarpinata per il ritorno al campo base. Ad un tratto l’inaspettato: un furgoncino Kangoo si ferma di fianco. State andando al dunk, chiede in inglese un ragazzo aprendoci una portiera del veicolo. Si viene caricati all'interno e portati a destinazione. Il ragazzo rivela inoltre che sono proprio gli abitanti del luogo ad organizzare il festival. Fa strano: in Piemonte le proloco organizzano sagre della bagnacauda e degli agnolotti al sugo d’arrosto, in Belgio invece organizzano festival post-rock.

 Si pranza alla mensa, non prima di aver cambiato i propri soldi in coins, la valuta del dunk! (1 gettone = 2€): gettoni in simil-plastica ricavati però dal riciclo delle bucce di patata. Con questi si possono comprare, oltre alla birra ovviamente (un solo gettone!), sandwiches, patate fritte e/o zuppe di verdure. Fuori incomincia a piovere, ma l’atmosfera intorno è tutt'altro che fredda e infelice. Si percepisce euforia in ogni dove. Che sia merito del caffè gratuito?

 Alle 16:30, puntuali, nel mainstage aprono il festival i Celestial Wolves, band belga nata nel 2011 che inizia la performance timidamente. Nonostante qualche problema tecnico occorso al bassista, la band ben presto si ambienta suonando magistralmente un post dai sentori metal e stoner. Ottima performance. Il comparto luci e l’acustica sono strepitosi.

 Sempre nel mainstage, dopo i Celestial Wolves e dopo qualche minuto per preparare il palco, alle 17:30 si esibiscono i Cecilia::Eyes, band sempre di casa. Un live di una potenza impressionante, mentre sullo schermo dietro di loro si susseguono animazioni di stampo espressionista. Eseguono buona parte dell’ultimo album, “Disappearance”: un volo in apnea tra il sublime e l’oscuro.

 Ci si sposta a questo punto a sentire i Cordyceps allo stargazer. Un gruppo, un duo, mai ascoltato prima. Sorprende il fatto che non suonino un post-rock tout court, bensì una sorta di elettronica sperimentale combinata al math-rock, per mezzo di portatile e chitarra; non affatto male, a dirla tutta, ma neanche troppo esaltante.

 È con i Wang Wen però che si inizia a sentirsi parte integrante, un tutt'uno con il post. I Wang Wen sono una delle band post-rock più importanti della Cina, autori fra l’altro di uno split insieme ai pg.lost. Attivi sin dal 1999, hanno pubblicato già 8 album. Purtroppo li si deve vedere dal fondo del mainstage, perché ci si è attardati a mangiare qualcosa. Eppure ciò non inficia minimamente l’ascolto, poiché il volume è ben settato. Mentre dietro di loro sul telo vengono proiettati due ideogrammi che continuano a mutare trama e colore, le loro musiche, come “Northern North” tratta dall'ultimo album, ricordano solide colonne sonore di colossal orientali lontani, arricchite dall'alternarsi di tromba e trombone. I Wang Wen emozionano, volteggiano con maestria e virtuosismo tra melanconia e vivace euforia.

 A questo punto ci si sposta nuovamente allo stargazer per Alison Chesley, in arte Helen Money, abile violoncellista e solista statunitense. Tra le varie collaborazioni, ha suonato insieme a MONO, Russian Circles e Jarboe. Con la sua musica ambient-doom che a tratti ricorda un’ancestrale litania oscura, si viene inevitabilmente trasportati nei meandri della perdizione sonora.

 Senza essersene resi conto, sono già le 21:30 ed è tempo di tornare al mainstage, sul palco del quale si esibiscono i Jakob, celebre trio neozelandese composto da chitarra, basso e batteria. Partono in quarta, non c’è più scampo per nessuno. Tra qualche pezzo di “Sines”, loro ultimo album, e qualche altro loro classico, erigono un massiccio muro di suono per poi sgretolarlo e scagliarne mattonate sui timpani di ogni ascoltatore: intensità senza sosta (N.B.: per chi volesse, nella sala della cucina, sono disponibili i tappi auricolari, gratuiti).

Un’altra piacevolissima scoperta: i Monophona, band lussemburghese che non suona né post-rock né metal, bensì un trip-hop travolgente. Si balla, nello stargazer si balla!, chi l’avrebbe mai sospettato. È anche questo il dunk!: commistione tra generi apparentemente incompatibili fra loro.

 È quasi mezzanotte. Tocca ai MONO, band che vista da sola varrebbe tutti i 90€ del biglietto per il dunk!, chiudere la giornata da headliner. I MONO arrivano dal Giappone e sono una delle band più famose e importanti della scena post-rock. Si assiste alle loro prove, si beve la decima birra della giornata e ci si siede in prima fila, attendendo con impazienza l’inizio del loro live. Si cerca di rintracciare con Shazam una canzone che passa dagli altoparlanti, ma nulla - d'altronde che si pretende? Si abbassano le luci della sala e i MONO aprono con “Recoil, ignite”, brano potentissimo, epico, tratto dall'ultimo album “Rays Of Darkness”. Poi “Unseen Harbor”, “Kanata”, “Pure as snow”, “Where We Begin”, “Ashes in the Snow” e infine “Everlasting Night”. Sono mostruosi, perfetti, dal vivo superano di gran lunga le canzoni da studio, già perfette per conto loro. Sottopelle passa uno tsunami carico di melodiche vibrazioni - per non parlare di quando il batterista percuote il gong. Insomma si fatica a tenere le palpebre aperte, tanta è la voglia di sognare.

 Finito la prima giornata di concerti si va a sgranocchiare qualcosa alla mensa, si conoscono 2 belgi e un americano, si parla del più e del meno, ma la stanchezza è tanta e si va alla tenda, giusto per passare un’altra notte all'insegna del gelo nordico.

 

 

Seconda giornata – Tunnel e rianimazione

 

Ci si sveglia sul presto, si è ancora più stanchi del giorno prima. Si va fare colazione in un bar in paese, dove si conosce un uomo che ha le sembianze di Bukowski, ma che parla solamente olandese. Bevuto il caffè, si va a comprare qualcosa al primo supermarket che si trova, il quale è stato preso d’assalto da molti altri compagni di dunk!. I concerti rispetto a ieri, iniziano ben prima: alle 13. Bisogna darsi una mossa!

 I primi ad esibirsi nel mainstage sono gli Hemelbestormer, giovane band belga che ha collaborato con i nostrani Vanessa Van Basten e che è in grado di combinare egregiamente post-rock, post-metal, sludge, doom e black-metal: un buon modo per cominciare la giornata!

 Si esce un attimo dal tendone per prendere un po’ di fiato, all'interno fa caldo e l’aria inizia ad essere pesante da respirare. Si può tuttavia notare, affisso all'ingresso, un foglietto sui cui è scritta una nota, ovvero che alle 17:40 i Doomina verranno sostituiti con i Stories From The Lost - si verrà a sapere più tardi che la band rimpiazzato ha avuto un guasto al furgoncino e pertanto non ha potuto raggiungere il festival. I Stories From The Lost comunque faranno la loro sporca figura.

 Presa l’aria di cui si necessitava, si rientra nel tendone per i Lehnen, gruppo austriaco che suona un post accattivante: molto consigliato l’ascolto. E nel mainstage si rimane. Dopo gli austriaci è il turno dei portoghesi, i Katabatic, band che sorprende e convince col proprio stoner; e dopo i portoghesi tocca agli australiani calcare il palco del dunk!fest, i Solkyri, fautori di un classico e godibile shoegaze: una lento crescendo che incalza fino a un climax distruttivo. Si raggiungono allo stargazer gli Huracàn, altra band belga che spacca col suo stoner oscuro, per poi ritornare al mainstage a sentire, come si è già detto in precedenza, i Stories From The Lost: ottima band post-metal.

 Ed è alle 18:40 che si assiste a un evento veramente speciale. Ci si sposta tutti nel bosco al cosiddetto “Drone set”, accerchiando, in una piazzola d’erba delimitata dalle fronde delle acacie, il canadese Eric Quack, in arte Thisquietarmy, che presenta al pubblico il suo nuovo “Anthems For Catharsis”. È un’esperienza unica nel suo genere: l’artista ammalia con la sua chitarra, i bordoni e i suoi innumerevoli effetti; e la cornice silvestre tutt'intorno estrania ogni consapevolezza del proprio ego, il quale si ritrova a vagare in spazi indefiniti.

 Quando Thisquietarmy conclude la performance ci si sente un tantino spaesati, ma in un attimo si torna coi piedi per terra e si va ad ascoltare Jo Quail, solista britannica che, col suo violoncello elettrico, le sue pedaliere e una gran dose di virtuosismo, pietrifica ogni anima.

 Sempre dall'Australia arrivano anche i Tangled Thoughts of Leaving. Il gruppo costruisce qualcosa di estremamente esaltante, epico (proprio come il tastierista che si dimena sui tasti del suo strumento in preda a una frenesia pressoché mistica). Alternano sapientemente questi momenti epici a momenti di delicata alterazione psichica: una perfetta commistione fra post-rock, jazz, progressive e post-metal.

 Per quanto riguarda gli Alice in the Cities, provenienti dalla Germania, c’è ben poco da dire, poiché già lo spiega il loro nome, ispirato all'omonimo film del ’74 di Wim Wenders, un road movie. Ebbene, le loro musiche sono vere e proprie colonne sonore minimal per lungometraggi di itinerari in mezzo ai tunnel dell’introspezione.

 Tra una birra e l’altra si sono fatte le 21:30. Al mainstage con i tedeschi The Ocean, in precedenza noti come The Ocean Collective, invece ci si graffia la voce tentando di emulare il growl sopra lo sludge e il postmetal. Il cantante si diverte e lo dimostra facendosi un bel bagno di folla con uno stage diving. L’esecuzione dei brani è perfetta, forse un po’ troppo perfetta, tanto che sembra che il gruppo non riesca a suscitare tanto marciume quanto vorrebbe. Lo si vedrebbe forse meglio calcare il metallico palco del Wacken che quello del dunk!.

 Altra rivelazione è The Eye of Time, Marc Euvrie all'anagrafe, polistrumentista e solista francese, abbigliato alla moda dei nostrani Sick Tamburo, dato che indossa un passamontagna; tuttavia basta che metta mano alla chitarra che subito si capisce che si tratti di tutt’altro: delizia il pubblico eseguendo i brani tratti dall'ultimo lavoro, “Anti”, caratterizzato da un dark-ambient particolarmente suggestivo, un oscuro mix minimal di campionamenti real time di voce, violoncello, chitarra e computer.

 Intorno a mezzanotte, a concludere la seconda giornata ci pensano i Caspian col loro post-rock da manuale. La band statunitense ci dà dentro, si suda e ci si dimena mentre vengono eseguiti classici come “Some Are White Light”, “the Raven”, “Gone in Bloom and Bough”, “Halls of the Summer” e “Sycamore” che, al raggiungimento del suo climax, in un’orgia di percussioni chiude con violenza ipnotica un live esagerato.

 Finita la seconda giornata di concerti, è ormai l’una. Nel cortile fra lo stargazer e la mensa, viene organizzata una sorta di discoteca all'aperto: per oggi basta con il post, che si faccia spazio alla dance! Si balla, si beve e si va a dormire decisamente tardi.

 

 

Terza giornata – De profundis musicae

 

Già, il venerdì si va a dormire decisamente tardi, ergo il sabato ci si sveglia altrettanto tardi. In un sol colpo si perdono sia i belgi Ilydaen che gli spagnoli Astralia, e non senza rammarico. A chiedere ad alcuni nuovi amici e poi a Cin si scopre che il live del primo gruppo è stato straordinario, così come quello del secondo. Insomma, viene voglia di fare seppuku, anche se ora non è il momento opportuno. Prima, col cervello che sembra essere stato preso a pugni, tanta è l’emicrania, si deve andare ad ascoltare il doom di pregevolissima fattura degli italiani Ornaments, di Mantova per la precisione. La ruota del karma intanto si è messa in moto e ci penserà nottetempo a fare il suo dovere.

 Alle 16 invece spetta ai The End of the Ocean travolgere il pubblico del mainstage. La band statunitense infatti non lesina sulla potenza, nonostante l’apertura un po’ timida; infatti in brevissimo tempo raggiunge apici d’intensità sonora che gruppi ben più noti e più avvezzi ai live non sono in grado di fare. Ascoltare dal vivo brani come “We always think there is going to be more time” o “On floating” significa percepire il fremere di ogni centimetro quadrato della propria pelle.

 Mentre si attende con impazienza i brasialiani Labirinto, si va a dare un’occhiata nello stargazer a Tom Wolf, solista belga che incanta e ravviva l’atmosfera con la sua voce, la chitarra acustica e le tante pedaliere e manopole; solista belga, si diceva, come Innerwoud, pseudonimo di Pieter-Jan Van Assche, che si esibirà dopo i brasiliani col suo contrabbasso capace di emettere sia melodie, tanto lievi quanto oscure, sia lunghi silenzi che riecheggeranno fortemente, grevi d’ombra, in ognuno degli spettatori.

 Cosa dire dei Labirinto? Di sicuro la sorpresa più gradita della giornata dopo i The End of the Ocean. A differenza di quest’ultimi, i Labirinto, in attività da 10 anni, hanno un’anima decisamente più dark e sperimentale. Dapprima si viene stregati da lente note che sembrano incatramate, tanto sono nere e pesanti, e poi si viene scaraventati con impeto contro un muro di suono così solido da spappolare carni ed ossa.

 A ben pensarci, si potrebbe anche smetterla qua, tornarsene in tenda e andarsene a dormire: per oggi di musica ottima se n’è già ascoltata in abbondanza. Eppure non basta, non basta perché, dopo Innerwoud, ora tocca agli Year of no light. Un altro sogno che si avvera: la curiosità di vederli dal vivo è insopprimibile. Li si sente suonare gran parte di “Ausserwelt” del 2010: “Persephone I”, “Persephone II” e “Hiérophante” ad esempio, brani assolutamente evocativi che spaziano fra il post-metal, il doom e lo sludge.

Con i Sixth Minor invece si prende un attimo di pausa da tutta quella pregnante oscurità respirata finora. Si tratta di un duo noise, chitarra e batteria, neanche a dirlo, italiano, che mixa ottimamente math-rock, elettronica, ambient e glitch (che per certi versi si ispirino ad Aphex Twin o ai 65daysofstatic?). Inutile dire che si viaggia e si sviaggia piacevolmente, ciondolando il capo.

 Dall’Inghilterra poi arrivano i Maybeshewill, gruppo famoso non per la quantità degli album sfornati, bensì per la loro qualità; un gruppo che infiamma il pubblico con ogni suo pezzo, lo estasia con “Red Paper Lanterns” e gli fa cantare all’unisono i malinconici versi di “He Films the Clouds pt.2”, col quale chiude il concerto. Purtroppo si era persa la loro tappa a Torino: un’ottima ragione, questa, per venire fin qui a Zottegem.

 Per la rassegna “un sabato italiano”, alle 22:40, al mainstage è il turno dei French Teen Idol: sono un po’ come la notte che senza accorgersene è sopraggiunta, “un dirigibile che ci porta via lontano”. Il duo nostrano dimostra tutta la propria bravura ai laptop e alle manopole, destreggiandosi tra post-rock, elettronica e ambient, creando un’atmosfera unica ed estraniante.

 Alla volta della disgregazione psichica, chiudono il dunk!festival gli Amenra, headliner post-hardcore di casa belga, nati nel lontano 1999. Con volumi abrasivi smaterializzano le coscienze, deviando ogni particella verso la notte più oscura che si possa immaginare. Si assiste niente meno che al sopraggiungere dello spettro dell’apocalisse, si viene trascinati in mezzo a un cimitero straziante, strisciando la propria carcassa da “The Pain It Is Shapeless We Are Your Shapeless Pain” a “Razoreater” e “Am Kreuz”, per venire seppelliti dai colpi finali di badile di “Silver Needle. Golden Nail”. De-va-stan-ti.

 Ciò che accade nel prosieguo della nottata potrà farlo emergere, fra qualche anno, soltanto una seduta su di una chaise longue nello studio di un abile psicologo. Tra una storta e una caduta per terra comunque si riesce a salutare i vari amici conosciuti in questi giorni e a promettersi di vedersi il prossimo anno qui al dunk!fest.

 

 

RITORNO A CASA – Domenica 17

 

Il malessere fisico procurato dalle notti belghe e dalla propria incoscienza si ripercuote su tutta la giornata. Ci si sveglia tossendo come tisici alle 10 del mattino, probabilmente si è dormito 4 ore. Il campo su cui si è montata la tenda è ormai vuoto, desolato. È proprio come risvegliarsi da un bel sogno: adesso bisogna fare i conti con la realtà. Come non-morti, insieme a Cin, si disfa la tenda e si preparano i bagagli. Ci si sposta a passi lenti e pesanti verso la mensa. Chissà quando hanno iniziato a smontare tutto, ci si chiede. Eppure la tristezza scompare all'istante, il ragazzo del Kangoo si offre per un passaggio fino in stazione (gratuito). Mentre ci si allontana non si può fare a meno di pensare a tutta la gente con cui si è chiacchierato, proveniente da ogni parte del mondo. E nemmeno si riesce ancora a capacitarsi di tutta quella mole di musica ascoltata in queste sole 3 giornate. Il dunk!fest di sicuro rimarrà impresso come una marchiatura a fuoco sul cuore. Al prossimo anno, Zottegem!

 

Victor De Paoli


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