[È con atroce dispiacere che apprendo, in ritardissimo per altro, della scomparsa di "Storie", rivista letteraria bilingue (italiano/inglese) internazionale di Roma con la quale avevo collaborato, scrivendo alcuni articoli. Fortunatamente qualcuno sono riuscito a salvarlo, e ancora più fortunatamente questo: il resoracconto del dunk!festival del 2015 (c*zzo che esperienza folle!), nel quale avevo recensito qualcosa come 34 gruppi post-rock, venendo poi anche citato da alcuni di questi nelle loro varie pagine facebook.
Ed è con non poca umiltà che ammetto di aver goduto come un riccio nell'aver scritto per questa rivista ed aver visto i miei articoli pubblicati, a nome mio, perché qui ci scriveva gente come Niccolò Ammaniti, Cristiano Godano dei Marlene Kuntz, Robert Coover, Ariel Dorfman, Björn Larsson e Thurston Moore dei Sonic Youth, così, per citarne alcuni. Che onore, c*azzo!
Pertanto, nel caso vi interessi o se per curiosità vogliate darci un'occhiata, lo lascio qua, il mio articolo, sul mio blog, così come l'avevo inviato 5 anni fa, perché ahimè la versione editata è finita dispersa... 😢
🤟🏼🤟🏼]
Giornata zero – Necessaria introduzione
Sono mesi che si
aspettava questo momento: il dunk!festival. Evento della durata di 3
giorni (14,15 e 16 maggio) che si tiene da 11 anni in Belgio e che ospita
alcune tra le migliori post-rock band provenienti da tutto il mondo - in
passato, fra le altre: God Is An Astronaut, And so i watch you from
afar, EF, Ufomammut, Sleepmakeswaves, Balmorhea
e pg.lost.
Insieme al buon Cin,
ormai fidato compagno di numerose trasferte, verso mezzogiorno di un mercoledì
già troppo afoso per essere solamente il 13 di maggio, si arriva all'aeroporto
di Caselle, inebriati da tanto entusiasmo da fare invidia a Pippi Calzelunghe.
È un attimo che ci si ritrova seduti sull'aereo. Come d’abitudine durante il
volo, la conversazione, per una buona ora, si riduce solamente a un ignorante
scambio di
Si atterra
all'aeroporto di Charleroi senza nemmeno sapere quale mezzo prendere per
arrivare fino a Brussels. Bisogna ammettere che non si è mai stati bravi ad
organizzare alcunché. Tra le varie opzioni si sceglie di prendere due biglietti
per la navetta che porta a Brussels-midi, la stazione, e da lì il treno per
Zottegem, cittadina che dista un’oretta dalla capitale e dove si trova il
festival, non prima di aver confuso un signore in giacca e cravatta, piuttosto
in carne e ubriaco con un controllore. In treno si riesce a contattare via mail
l’organizzazione del dunk!, giusto per capire se si possa già piazzare la tenda
e a che ora chiuda il campeggio - dopotutto si è arrivati un giorno prima
dell’inizio del festival. Appena il cellulare decide di prendere nuovamente
campo, si riceve la risposta: «You're welcome any time. Just be sure to set
your tent and car in the right area. See you soon!
Con una risposta
simile, si fa fatica a trattenere le lacrime per lo stupore, in primo luogo
perché si è ricevuta una risposta, tempestiva per di più; in secondo luogo
perché l’essere italiani e il sentirsi benvenuti in un paese straniero non è
affatto scontato di questi tempi.
Si giunge a Zottegem
per le 17:00, tuttavia la meta dista un’altra mezz'ora dalla stazione, una
mezz'ora da fare a piedi, con trolley e valigia contenente tenda, materassino e
quant'altro. Si decide di rilassarsi un poco in un pub belga: ce lo si è
meritato in fin dei conti. Una, due, tre birre. Si fa fatica a trattenersi da
berne altre, eppure il sole sta tramontando. Ed è sotto l’imbrunire che ci si
mette in marcia attraverso la campagna belga: villette stupende e pascoli
verdeggianti. La strada è più lunga del previsto, l’ingresso che si pensava
fosse quello giusto in realtà è quello per gli artisti, quello per gli
spettatori invece dista ancora uno o due chilometri. Nessun problema comunque,
con qualche imprecazione si arriva a destinazione.
La prima cosa che si
riesce a notare, mentre il buio sta prendendo sopravvento sul crepuscolo, è un
tendone da circo, enorme, a strisce blu e gialle – evidentemente lì dentro si
svolgeranno i concerti, si pensa – e un boschetto al cui interno c’è un
percorso illuminato da qualche lucetta; la seconda cosa che si nota è che
stanno ancora ultimando i lavori. Un’abitudine, a quanto pare, non solo
italiana. Stremati, si riesce a montare la tenda in un vasto campo d’erba
deserto, se non per altre tre tende, distanti anni luce l’una dall'altra. È
d’obbligo sottolineare a questo punto che il campeggio per questo e per i
prossimi 3 giorni è gratuito.
È nemmeno mezzanotte
che si viene assaliti da un freddo atroce – il massimo che ci si è portati
dietro per coprirsi è una felpa con cappuccio, mentre i sacchi a pelo si sono
lasciati in Italia, troppo pesanti per essere imbarcati. Chi poteva prevedere
che a maggio le temperature potessero scendere quasi sotto lo zero in un paese
situato tra il nord della Francia e quello della Germania? I soliti imbecilli.
Non c’è niente da fare, se non rassegnarsi all'inevitabile.
Prima giornata – Smilodonti e dragoni
Ci si sveglia intorno alle dieci del mattino, ancora più
stanchi rispetto al giorno prima. Poco importa, oggi inizia il dunk!fest! Il
campo intorno incomincia a macchiarsi di tende e si decide per il perlustrare
l’area circostante. Con la luce del sole è tutta un’altra cosa. Non c’è solo il
tendone, ma anche un discreto complesso di edifici sul retro, oltre al
succitato boschetto. Gli stages sono due: il Mainstage e lo Stargazer stage,
quest’ultimo un tendone bianco un po’ più piccolo e più sobrio rispetto al
primo. Fra i due è posto un edificio al cui interno sono situati la cucina, la
mensa, un tavolino per caricare i cellulari e una stanzetta nella quale ci sono
le bancarelle dove comprare album e magliette dei diversi gruppi. E il wi-fi?
Certo, c’è anche quello, gratuito.
Dato che manca qualche
ora all'inizio dei concerti, si decide di andare a piedi a Zottegem alla
ricerca di una coperta più pesante per la notte successiva. Ovviamente si
sbaglia strada e, cocciuti come somari lobotomizzati, si allunga di un’altra
buona mezz'ora sotto a un cielo che non promette nulla di buono. In città si
viene a sapere che oggi è festa nazionale, quale sia però non è dato saperlo.
Ciò significa soltanto una cosa: si è camminato per niente, poiché tutti i
negozi sono chiusi. Con le pive nel sacco, insieme a qualche birra belga e un
whisky recuperati a un tabaccaio non osservante le festività, ci si prepara
alla scarpinata per il ritorno al campo base. Ad un tratto l’inaspettato: un
furgoncino Kangoo si ferma di fianco. State andando al dunk, chiede in inglese un
ragazzo aprendoci una portiera del veicolo. Si viene caricati all'interno e
portati a destinazione. Il ragazzo rivela inoltre che sono proprio gli abitanti
del luogo ad organizzare il festival. Fa strano: in Piemonte le proloco
organizzano sagre della bagnacauda e degli agnolotti al sugo d’arrosto, in
Belgio invece organizzano festival post-rock.
Si pranza alla mensa,
non prima di aver cambiato i propri soldi in coins, la valuta del dunk!
(1 gettone = 2€): gettoni in simil-plastica ricavati però dal riciclo delle
bucce di patata. Con questi si possono comprare, oltre alla birra ovviamente
(un solo gettone!), sandwiches, patate fritte e/o zuppe di verdure. Fuori
incomincia a piovere, ma l’atmosfera intorno è tutt'altro che fredda e
infelice. Si percepisce euforia in ogni dove. Che sia merito del caffè gratuito?
Alle 16:30, puntuali,
nel mainstage aprono il festival i Celestial Wolves, band belga nata nel
2011 che inizia la performance timidamente. Nonostante qualche problema tecnico
occorso al bassista, la band ben presto si ambienta suonando magistralmente un
post dai sentori metal e stoner. Ottima performance. Il comparto luci e
l’acustica sono strepitosi.
Sempre nel mainstage,
dopo i Celestial Wolves e dopo qualche minuto per preparare il palco, alle 17:30
si esibiscono i Cecilia::Eyes, band sempre di casa. Un live di una
potenza impressionante, mentre sullo schermo dietro di loro si susseguono
animazioni di stampo espressionista. Eseguono buona parte dell’ultimo album, “Disappearance”:
un volo in apnea tra il sublime e l’oscuro.
Ci si sposta a questo
punto a sentire i Cordyceps allo stargazer. Un gruppo, un duo, mai
ascoltato prima. Sorprende il fatto che non suonino un post-rock tout court,
bensì una sorta di elettronica sperimentale combinata al math-rock, per mezzo
di portatile e chitarra; non affatto male, a dirla tutta, ma neanche troppo
esaltante.
È con i Wang Wen
però che si inizia a sentirsi parte integrante, un tutt'uno con il post. I Wang
Wen sono una delle band post-rock più importanti della Cina, autori fra l’altro
di uno split insieme ai pg.lost. Attivi sin dal 1999, hanno pubblicato
già 8 album. Purtroppo li si deve vedere dal fondo del mainstage, perché ci si
è attardati a mangiare qualcosa. Eppure ciò non inficia minimamente l’ascolto,
poiché il volume è ben settato. Mentre dietro di loro sul telo vengono
proiettati due ideogrammi che continuano a mutare trama e colore, le loro
musiche, come “Northern North” tratta dall'ultimo album, ricordano
solide colonne sonore di colossal orientali lontani, arricchite dall'alternarsi
di tromba e trombone. I Wang Wen emozionano, volteggiano con maestria e
virtuosismo tra melanconia e vivace euforia.
A questo punto ci si
sposta nuovamente allo stargazer per Alison Chesley, in arte Helen Money,
abile violoncellista e solista statunitense. Tra le varie collaborazioni, ha
suonato insieme a MONO, Russian Circles e Jarboe. Con la sua musica
ambient-doom che a tratti ricorda un’ancestrale litania oscura, si viene
inevitabilmente trasportati nei meandri della perdizione sonora.
Senza essersene resi
conto, sono già le 21:30 ed è tempo di tornare al mainstage, sul palco del
quale si esibiscono i Jakob, celebre trio neozelandese composto da
chitarra, basso e batteria. Partono in quarta, non c’è più scampo per nessuno.
Tra qualche pezzo di “Sines”, loro ultimo album, e qualche altro loro
classico, erigono un massiccio muro di suono per poi sgretolarlo e scagliarne
mattonate sui timpani di ogni ascoltatore: intensità senza sosta (N.B.: per chi
volesse, nella sala della cucina, sono disponibili i tappi auricolari, gratuiti).
Un’altra piacevolissima scoperta: i Monophona, band
lussemburghese che non suona né post-rock né metal, bensì un trip-hop
travolgente. Si balla, nello stargazer si balla!, chi l’avrebbe mai sospettato.
È anche questo il dunk!: commistione tra generi apparentemente
incompatibili fra loro.
È quasi mezzanotte.
Tocca ai MONO, band che vista da sola varrebbe tutti i 90€ del biglietto
per il dunk!, chiudere la giornata da headliner. I MONO arrivano dal Giappone e
sono una delle band più famose e importanti della scena post-rock. Si assiste
alle loro prove, si beve la decima birra della giornata e ci si siede in prima
fila, attendendo con impazienza l’inizio del loro live. Si cerca di
rintracciare con Shazam una canzone che passa dagli altoparlanti, ma nulla -
d'altronde che si pretende? Si abbassano le luci della sala e i MONO aprono con
“Recoil, ignite”, brano potentissimo, epico, tratto dall'ultimo album “Rays
Of Darkness”. Poi “Unseen Harbor”, “Kanata”, “Pure as snow”,
“Where We Begin”, “Ashes in the Snow” e infine “Everlasting
Night”. Sono mostruosi, perfetti, dal vivo superano di gran lunga le
canzoni da studio, già perfette per conto loro. Sottopelle passa uno tsunami
carico di melodiche vibrazioni - per non parlare di quando il batterista
percuote il gong. Insomma si fatica a tenere le palpebre aperte, tanta è la
voglia di sognare.
Finito la prima
giornata di concerti si va a sgranocchiare qualcosa alla mensa, si conoscono 2
belgi e un americano, si parla del più e del meno, ma la stanchezza è tanta e
si va alla tenda, giusto per passare un’altra notte all'insegna del gelo
nordico.
Seconda giornata – Tunnel e rianimazione
Ci si sveglia sul presto, si è ancora più stanchi del giorno
prima. Si va fare colazione in un bar in paese, dove si conosce un uomo che ha
le sembianze di Bukowski, ma che parla solamente olandese. Bevuto il caffè, si
va a comprare qualcosa al primo supermarket che si trova, il quale è stato
preso d’assalto da molti altri compagni di dunk!. I concerti rispetto a ieri,
iniziano ben prima: alle 13. Bisogna darsi una mossa!
I primi ad esibirsi
nel mainstage sono gli Hemelbestormer, giovane band belga che ha
collaborato con i nostrani Vanessa Van Basten e che è in grado di
combinare egregiamente post-rock, post-metal, sludge, doom e black-metal: un
buon modo per cominciare la giornata!
Si esce un attimo dal
tendone per prendere un po’ di fiato, all'interno fa caldo e l’aria inizia ad
essere pesante da respirare. Si può tuttavia notare, affisso all'ingresso, un
foglietto sui cui è scritta una nota, ovvero che alle 17:40 i Doomina
verranno sostituiti con i Stories From The Lost - si verrà a sapere più
tardi che la band rimpiazzato ha avuto un guasto al furgoncino e pertanto non
ha potuto raggiungere il festival. I Stories From The Lost comunque faranno la
loro sporca figura.
Presa l’aria di cui
si necessitava, si rientra nel tendone per i Lehnen, gruppo austriaco
che suona un post accattivante: molto consigliato l’ascolto. E nel mainstage si
rimane. Dopo gli austriaci è il turno dei portoghesi, i Katabatic, band
che sorprende e convince col proprio stoner; e dopo i portoghesi tocca agli
australiani calcare il palco del dunk!fest, i Solkyri, fautori di un
classico e godibile shoegaze: una lento crescendo che incalza fino a un climax
distruttivo. Si raggiungono allo stargazer gli Huracàn, altra band belga
che spacca col suo stoner oscuro, per poi ritornare al mainstage a sentire,
come si è già detto in precedenza, i Stories From The Lost: ottima band post-metal.
Ed è alle 18:40 che
si assiste a un evento veramente speciale. Ci si sposta tutti nel bosco al
cosiddetto “Drone set”, accerchiando, in una piazzola d’erba delimitata dalle
fronde delle acacie, il canadese Eric Quack, in arte Thisquietarmy, che
presenta al pubblico il suo nuovo “Anthems For Catharsis”. È
un’esperienza unica nel suo genere: l’artista ammalia con la sua chitarra, i
bordoni e i suoi innumerevoli effetti; e la cornice silvestre tutt'intorno
estrania ogni consapevolezza del proprio ego, il quale si ritrova a vagare in
spazi indefiniti.
Quando Thisquietarmy
conclude la performance ci si sente un tantino spaesati, ma in un attimo si
torna coi piedi per terra e si va ad ascoltare Jo Quail, solista
britannica che, col suo violoncello elettrico, le sue pedaliere e una gran dose
di virtuosismo, pietrifica ogni anima.
Sempre dall'Australia
arrivano anche i Tangled Thoughts of Leaving. Il gruppo costruisce
qualcosa di estremamente esaltante, epico (proprio come il tastierista che si
dimena sui tasti del suo strumento in preda a una frenesia pressoché mistica).
Alternano sapientemente questi momenti epici a momenti di delicata alterazione
psichica: una perfetta commistione fra post-rock, jazz, progressive e
post-metal.
Per quanto riguarda
gli Alice in the Cities, provenienti dalla Germania, c’è ben poco da
dire, poiché già lo spiega il loro nome, ispirato all'omonimo film del ’74 di
Wim Wenders, un road movie. Ebbene, le loro musiche sono vere e proprie colonne
sonore minimal per lungometraggi di itinerari in mezzo ai tunnel
dell’introspezione.
Tra una birra e
l’altra si sono fatte le 21:30. Al mainstage con i tedeschi The Ocean,
in precedenza noti come The Ocean Collective, invece ci si graffia la
voce tentando di emulare il growl sopra lo sludge e il postmetal. Il cantante
si diverte e lo dimostra facendosi un bel bagno di folla con uno stage diving.
L’esecuzione dei brani è perfetta, forse un po’ troppo perfetta, tanto che
sembra che il gruppo non riesca a suscitare tanto marciume quanto vorrebbe. Lo
si vedrebbe forse meglio calcare il metallico palco del Wacken che quello del
dunk!.
Altra rivelazione è The
Eye of Time, Marc Euvrie all'anagrafe, polistrumentista e solista francese,
abbigliato alla moda dei nostrani Sick Tamburo, dato che indossa un passamontagna;
tuttavia basta che metta mano alla chitarra che subito si capisce che si tratti
di tutt’altro: delizia il pubblico eseguendo i brani tratti dall'ultimo lavoro,
“Anti”, caratterizzato da un dark-ambient particolarmente suggestivo, un
oscuro mix minimal di campionamenti real time di voce, violoncello, chitarra e
computer.
Intorno a mezzanotte,
a concludere la seconda giornata ci pensano i Caspian col loro post-rock
da manuale. La band statunitense ci dà dentro, si suda e ci si dimena mentre
vengono eseguiti classici come “Some Are White Light”, “the Raven”,
“Gone in Bloom and Bough”, “Halls of the Summer” e “Sycamore”
che, al raggiungimento del suo climax, in un’orgia di percussioni chiude con
violenza ipnotica un live esagerato.
Finita la seconda
giornata di concerti, è ormai l’una. Nel cortile fra lo stargazer e la mensa,
viene organizzata una sorta di discoteca all'aperto: per oggi basta con il
post, che si faccia spazio alla dance! Si balla, si beve e si va a dormire
decisamente tardi.
Terza giornata – De profundis musicae
Già, il venerdì si va a dormire decisamente tardi, ergo il
sabato ci si sveglia altrettanto tardi. In un sol colpo si perdono sia i belgi Ilydaen
che gli spagnoli Astralia, e non senza rammarico. A chiedere ad alcuni
nuovi amici e poi a Cin si scopre che il live del primo gruppo è stato
straordinario, così come quello del secondo. Insomma, viene voglia di fare
seppuku, anche se ora non è il momento opportuno. Prima, col cervello che
sembra essere stato preso a pugni, tanta è l’emicrania, si deve andare ad
ascoltare il doom di pregevolissima fattura degli italiani Ornaments, di
Mantova per la precisione. La ruota del karma intanto si è messa in moto e ci
penserà nottetempo a fare il suo dovere.
Alle 16 invece spetta
ai The End of the Ocean travolgere il pubblico del mainstage. La band
statunitense infatti non lesina sulla potenza, nonostante l’apertura un po’
timida; infatti in brevissimo tempo raggiunge apici d’intensità sonora che
gruppi ben più noti e più avvezzi ai live non sono in grado di fare. Ascoltare
dal vivo brani come “We always think there is going to be more time” o “On
floating” significa percepire il fremere di ogni centimetro quadrato della
propria pelle.
Mentre si attende con
impazienza i brasialiani Labirinto, si va a dare un’occhiata nello
stargazer a Tom Wolf, solista belga che incanta e ravviva l’atmosfera
con la sua voce, la chitarra acustica e le tante pedaliere e manopole; solista
belga, si diceva, come Innerwoud, pseudonimo di Pieter-Jan Van Assche,
che si esibirà dopo i brasiliani col suo contrabbasso capace di emettere sia
melodie, tanto lievi quanto oscure, sia lunghi silenzi che riecheggeranno
fortemente, grevi d’ombra, in ognuno degli spettatori.
Cosa dire dei Labirinto?
Di sicuro la sorpresa più gradita della giornata dopo i The End of the Ocean.
A differenza di quest’ultimi, i Labirinto, in attività da 10 anni, hanno
un’anima decisamente più dark e sperimentale. Dapprima si viene stregati da
lente note che sembrano incatramate, tanto sono nere e pesanti, e poi si viene
scaraventati con impeto contro un muro di suono così solido da spappolare carni
ed ossa.
A ben pensarci, si
potrebbe anche smetterla qua, tornarsene in tenda e andarsene a dormire: per
oggi di musica ottima se n’è già ascoltata in abbondanza. Eppure non basta, non
basta perché, dopo Innerwoud, ora tocca agli Year of no light. Un
altro sogno che si avvera: la curiosità di vederli dal vivo è insopprimibile.
Li si sente suonare gran parte di “Ausserwelt” del 2010: “Persephone
I”, “Persephone II” e “Hiérophante” ad esempio, brani
assolutamente evocativi che spaziano fra il post-metal, il doom e lo sludge.
Con i Sixth Minor invece si prende un attimo di pausa
da tutta quella pregnante oscurità respirata finora. Si tratta di un duo noise,
chitarra e batteria, neanche a dirlo, italiano, che mixa ottimamente math-rock,
elettronica, ambient e glitch (che per certi versi si ispirino ad Aphex Twin o
ai 65daysofstatic?). Inutile dire che si viaggia e si sviaggia piacevolmente,
ciondolando il capo.
Dall’Inghilterra poi
arrivano i Maybeshewill, gruppo famoso non per la quantità degli album
sfornati, bensì per la loro qualità; un gruppo che infiamma il pubblico con
ogni suo pezzo, lo estasia con “Red Paper Lanterns” e gli fa cantare
all’unisono i malinconici versi di “He Films the Clouds pt.2”, col quale
chiude il concerto. Purtroppo si era persa la loro tappa a Torino: un’ottima
ragione, questa, per venire fin qui a Zottegem.
Per la rassegna “un
sabato italiano”, alle 22:40, al mainstage è il turno dei French Teen Idol:
sono un po’ come la notte che senza accorgersene è sopraggiunta, “un dirigibile
che ci porta via lontano”. Il duo nostrano dimostra tutta la propria bravura ai
laptop e alle manopole, destreggiandosi tra post-rock, elettronica e ambient,
creando un’atmosfera unica ed estraniante.
Alla volta della
disgregazione psichica, chiudono il dunk!festival gli Amenra, headliner
post-hardcore di casa belga, nati nel lontano 1999. Con volumi abrasivi
smaterializzano le coscienze, deviando ogni particella verso la notte più
oscura che si possa immaginare. Si assiste niente meno che al sopraggiungere
dello spettro dell’apocalisse, si viene trascinati in mezzo a un cimitero
straziante, strisciando la propria carcassa da “The Pain It Is Shapeless We
Are Your Shapeless Pain” a “Razoreater” e “Am Kreuz”, per
venire seppelliti dai colpi finali di badile di “Silver Needle. Golden Nail”.
De-va-stan-ti.
Ciò che accade nel
prosieguo della nottata potrà farlo emergere, fra qualche anno, soltanto una
seduta su di una chaise longue nello studio di un abile psicologo. Tra una
storta e una caduta per terra comunque si riesce a salutare i vari amici
conosciuti in questi giorni e a promettersi di vedersi il prossimo anno qui al
dunk!fest.
RITORNO A CASA – Domenica 17
Il malessere fisico procurato dalle notti belghe e dalla
propria incoscienza si ripercuote su tutta la giornata. Ci si sveglia tossendo
come tisici alle 10 del mattino, probabilmente si è dormito 4 ore. Il campo su
cui si è montata la tenda è ormai vuoto, desolato. È proprio come risvegliarsi
da un bel sogno: adesso bisogna fare i conti con la realtà. Come non-morti,
insieme a Cin, si disfa la tenda e si preparano i bagagli. Ci si sposta a passi
lenti e pesanti verso la mensa. Chissà quando hanno iniziato a smontare tutto,
ci si chiede. Eppure la tristezza scompare all'istante, il ragazzo del Kangoo
si offre per un passaggio fino in stazione (gratuito). Mentre ci si
allontana non si può fare a meno di pensare a tutta la gente con cui si è
chiacchierato, proveniente da ogni parte del mondo. E nemmeno si riesce ancora
a capacitarsi di tutta quella mole di musica ascoltata in queste sole 3
giornate. Il dunk!fest di sicuro rimarrà impresso come una marchiatura a fuoco
sul cuore. Al prossimo anno, Zottegem!
Victor De Paoli
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